Il blog di Chiara Cecutti

Sentirci speciali nelle nostre diversità: Tim Burton insegna

Avete mai provato ad immaginare come ci si possa sentire fuori dal coro? Vi è mai capitato di essere additati come diversi o strani? E vi siete mai chiesti il perché? Il senso di appartenenza al gruppo o alla categoria è molto forte nell’età più giovane, infatti da bambini o da adolescenti non è difficile sentirsi emarginati a scuola o dalla comitiva del quartiere. Ma non è raro che ciò accada anche agli adulti nella propria cerchia sociale, nel gruppo di amici o sul posto di lavoro tra superiori e colleghi. Basta a volte quel particolare, quella piccola imperfezione nel concetto di perfezione del gruppo per essere tagliati fuori, allontanati, evitati, temuti. Proprio così, perché aver paura del diverso è la soluzione più semplice per sentirsi protetti e al sicuro da ciò che non conosciamo e che non ci somiglia affatto. Ma è anche il modo più sbagliato che ci sia di affrontare tutto ciò.

Così come abbiamo fatto qualche tempo fa scrivendo di Alla ricerca di Dory a proposito delle difficoltà da superare per raggiungere i propri obiettivi, oggi torniamo a parlarvi di un film che riteniamo emblematico in relazione al tema di cui sopra: si tratta di Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali con il quale il regista visionario Tim Burton porta al cinema il primo romanzo di Ransom Riggs. Libro e pellicola raccontano di un ragazzo che non si sente mai al suo posto e l’unico a comprenderlo sembra essere suo nonno il quale gli narra storie che hanno dell’incredibile. Ad esempio gli rivela di quando da bambino è stato ospite della casa dei ragazzi speciali di Miss Peregrine e mostra al nipote anche alcune fotografie dei suoi ex compagni, invitandolo ad andarli a trovare per poter capire che anche lui è speciale tanto quanto loro. E fin qui nulla di così strano.

Ma quell’essere speciale di cui parla il vecchio non è proprio una condizione invidiabile perché nessuno ammirerà una ragazza che deve portare sempre dei guanti dal momento che tutto ciò che tocca con le mani va a fuoco, o quel bambino che quando apre la bocca soffia fuori, suo malgrado, sciami di api che vivono dentro di lui, o quella ragazzina che è così carina e delicata d’aspetto che certo non si può immaginare che sulla nuca, sotto i riccioli biondi da bambola, ha una seconda bocca a dir poco mostruosa con denti affilati che spolpa un cosciotto in un battibaleno. Insomma, una specie di mostri che se ne devono stare nascosti, sia nello spazio che nel tempo, per non essere sopraffatti e annientati da altri mostri, stavolta molto cattivi. Eppure, al dunque, ognuno di loro usa la sua “mostruosità” per salvare, con successo, se stesso e gli altri.

“Anch’io da bambino mi sentivo strano ed escluso – ha raccontato Tim Burton che ha già affrontato questa tematica in altri suoi film – ma fortunatamente ho avuto anch’io qualcuno che ha sostenuto le mie peculiarità incoraggiandomi ad essere e sentirmi speciale: essere diverso è stata la mia fortuna”. La conclusione quindi è tutta qui: spesso scambiamo alcune nostre qualità per difetti di cui vergognarci in modo da allineare la nostra visione a quella di coloro che ci giudicano e ci emarginano, e soffrire un po’ meno. Ma le diversità non sono affatto sinonimo di difetto, sono semplicemente qualità che non tutti hanno, e anche se all’apparenza sembrano brutte, sono sicuramente utili a qualcosa, sta a noi scoprire a cosa. Essere diversi dagli altri non deve allontanarcene, al contrario: dobbiamo essere orgogliosi delle nostre peculiarità e metterle al servizio di noi stessi e, perché no, anche degli altri. Basta sentirsi speciali. E non è certo un caso che la testimonial del film sia Bebe Vio, la campionessa paralimpica di scherma che è anche testimonial della Onlus art4sport che aiuta i bambini con protesi a credere in se stessi grazie allo sport: “i ragazzi – dice Bebe – devono capire che le loro mancanze possono trasformarsi nei loro punti di forza, nelle loro specialità, proprio come accade nel film”.

 

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