Il blog di Chiara Cecutti

Age management: la gestione dei lavoratori più anziani

Age management. Cerchiamo di capire come sia può utilizzare al meglio il capitale umano e professionale dei lavoratori over 55. Politiche del lavoro, gestione aziendale, formazione e motivazione del personale.

Siamo un mondo che invecchia.

I dati parlano chiaro da molti anni, il fattore demografico sta diventando un problema importante della vita di ogni Paese. Secondo l’Istat, in Italia le coppie hanno meno di un figlio e mezzo a testa (1.42) e l’incremento degli ultimi anni (1.26 nel 2001) è dovuto essenzialmente agli immigrati, cresciuti di tre milioni in un decennio. In parallelo, grazie all’evoluzione scientifica e tecnologica e al miglioramento delle condizioni di vita, l’età media cresce e continuerà a crescere nei prossimi anni.

È facile capire come un cambiamento di questo genere, avvenuto con rapidità, possa mettere in crisi molti aspetti della vita sociale. A partire da un dato economico con cui abbiamo dovuto fare i conti spesso, negli ultimi anni: i costi dei servizi sociali e in particolare delle pensioni, cominciano a essere difficili da sostenere per una società in cui le persone sopra i 60 anni superano quelle sotto i 25 anni.

Occorrono politiche specifiche, riforme specifiche, comportamenti e filosofie aziendali specifiche e un approccio al problema il più generale possibile. L’età dei lavoratori, le competenze, il rapporto con la produttività e i costi non sono argomenti che riguardano solo i lavoratori più anziani, ma i lavoratori nel loro complesso. È un problema culturale e come tale va affrontato.

Non è sempre vero che al crescere dell’età si manifesta un calo del rendimento e della produttività del lavoratore. Occorre tenere presente il tipo di lavoro, il contesto in cui si svolge, la gestione che l’azienda fa del lavoratore e delle risorse umane in generale. Se pensiamo di dividere la vita lavorativa in tre fasi – sotto i 30 anni, fra i 30 e i 45 e oltre i 45 – si scopre facilmente che le persone più anziane perdono alcuni aspetti della loro precedente vita lavorativa e ne acquisiscono altri che una giusta politica aziendale deve valorizzare e utilizzare.

Aumentano ad esempio la capacità di relazione e tutte quelle competenze sociali che fanno parte della vita lavorativa (disponibilità, affidabilità, responsabilità, accuratezza nel lavoro) e se i lavoratori restano nello stesso impianto produttivo l’esperienza produce una crescita delle competenze tipiche del lavoro svolto. In più l’evoluzione tecnologica consente in molti casi di compensare il calo naturale della prestanza fisica che si accompagna con l’età.
Eppure, ogni volta che si affronta il problema, l’argomento più frequente con cui si giustifica l’esclusione dal lavoro degli over 55 è proprio il calo di produttività dovuto al degrado fisico e la crescita del salario che finisce per eccedere la produttività.
Uno studio approfondito proprio sulla produttività rivela però che l’età incide in maniera diversa su componenti diverse. Cresce l’assenteismo, ma come durata dell’assenza, mentre il numero totale dei giorni è lo stesso dei lavoratori più giovani. Diminuisce, ma non in maniera significativa, la capacità di lavoro, ma se si escludono impieghi in cui la forza fisica è una componente fondamentale, il vantaggio per l’utilizzo di lavoratori giovani (preferibili per adattabilità, famigliarità con i sistemi informatici) si riduce ulteriormente.
Resta la componente salariale che fa crescere il divario di convenienza fra giovani e più anziani, quando l’evoluzione della tecnologia rende inutili o obsolete le competenze lavorative a una velocità superiore rispetto all’apprendimento.

Si tratta in larga misura di un problema di approccio e di apprendimento che una formazione continua e specifica e uno studio a tutto tondo delle risorse umane dell’azienda può ridurre in maniera considerevole, se non eliminare del tutto.

Lo schema generale che vede calare la convenienza aziendale di un lavoratore più anziano rispetto a uno giovane non è scolpito nella pietra e richiede una valutazione più dettagliata, che tenga conto di contesti specifici. Se è banale immaginare cosa accade quando la forza fisica è l’unica componente o la componente fondamentale del lavoro, lo spostamento dell’economia verso la fornitura di servizi e le necessità di esperienza e capacità di relazione evidenziano un potenziale produttivo del lavoratore più anziano non sempre considerato nel modo corretto.

In questo si inserisce una contraddizione evidente della nostra società che lancia in maniera precisa due messaggi opposti. Se da un lato le continue riforme del mondo del lavoro, dovute a problemi di bilancio e sostenibilità del sistema, portano l’età pensionabile verso i 70 anni, dall’altro pare sempre più necessario dare spazio a lavoratori giovani e liberarsi in modi diversi delle risorse più anziane, considerate solo un costo.
In un contesto simile, con le riforme non sempre compiute fino in fondo e le risorse che scarseggiano, non deve stupire il desiderio dei lavoratori di andare in pensione prima possibile e l’insoddisfazione verso il lavoro che stanno svolgendo.

È chiaro, quindi, che il problema va affrontato in un’ottica che tenga conto della diversità dei contesti.
Le politiche economiche e sociali dovrebbero promuovere nuove soluzioni in molti ambiti.

  • Sistemi previdenziali che prevedano e favoriscano la flessibilità dell’età pensionabile e la transizione fra lavoro e pensione
  • Politiche sanitarie che tengano conto dell’età dei lavoratori
  • Nuovi assetti contrattuali che favoriscano il prolungamento dell’attività lavorativa, anche in funzione della sostenibilità del sistema pensionistico
  • Sostegno alle politiche del lavoro e alla gestione di quelle aziende che si occupano attivamente della formazione dei lavoratori più anziani e della loro collocazione lavorativa
  • Ferree norme antidiscriminazione con conseguenze operative certe
  • Promozione di un nuovo equilibrio fra vita e lavoro, che tenga conto delle diverse necessità del lavoratore nelle diverse età della vita

Il contesto aziendale, quindi, è molto importante. E, di conseguenza, il ruolo del manager nella gestione delle risorse umane:

  • formazione continua, per avere una forza lavoro sempre aggiornata e in grado di affrontare con competenza l’evoluzione della tecnologia
  • prevenzione degli infortuni, sicurezza sul luogo del lavoro, monitoraggio dello stato di salute
  • motivazione, riconoscimento e valorizzazione dell’esperienza del lavoratore più anziano, in modo che nessuno si senta escluso e tutti possano essere gratificati e considerati dall’azienda, utili ai processi aziendali e alla produttività
  • innovazione e cambiamento nei compiti aziendali, per fornire a ogni lavoratore un compito adatto alla propria età, favorendo nuove competenze e nuove funzioni
  • creazione di un ambiente di lavoro che favorisca il dialogo fra generazioni e il passaggio di conoscenza fra giovani e meno giovani

Sono linee guida semplici, partono da un approccio complessivo, si occupano dell’azienda nella sua totalità e mostrano come il lavoratore meno giovane debba essere una risorsa, invece di essere considerato, come accade spesso, un semplice costo.

La stessa possibilità dell’age management mostra che la situazione non è immutabile, varia a seconda dei contesti e può essere gestita in maniera proficua, soddisfacente e redditizia per tutti. La crescita economica, la competività, il futuro economico delle aziende dipendono anche da questo.

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